La nuova raccolta di Roberta Dapunt si snoda intorno a una serie di nuclei: il dolore come esperienza personale, come natura umana, come indignazione per le vicende collettive, siano le guerre, i migranti, il virus o la violenza sulle donne; e il silenzio, anzi, i silenzi, che non devono nascere da costrizione ma dallo stupore, dal pianto, dalla contemplazione; le sensazioni del sacro, visioni, odori, suoni; e la scrittura con la sua potenza e la sua impotenza, con i suoi tempi verbali nei quali è difficile immedesimarsi, così come è difficile riuscire a identificare se stessi nel fluire del tempo non verbale. L’intersecarsi di questi temi forma un percorso, una storia personale e collettiva raccontata con una forte tensione che non viene mai meno. E con una voce sempre alta, ma che non si fa mai enfatica grazie alla profonda perplessità che la anima da dentro.
Introduzione: Giovanni Tesio
sull’unità del verbo
Il tempo, questa voce d’incerta origine
tra principio e fine, eppure senza mai cessare.
Cosa pensare e come pensarlo
tutto questo tempo in sovrabbondanza di sé
e io che non lo comprendo.
La mia mente riconosce sì un tempo in fiore,
le frasi del linguaggio colloquiale, un elevato dire
che scrive un verso e un altro verso ancora
e forma e diventa un tempo di poesia.
All’opposto il tempo ora non mi contiene,
il suo insieme non ospita nulla di mio.
Misera condizione è la dispersione che sento,
diaspora dei pensieri che non porta all’unità del verbo.